Parla il silenzio

Venerdì 29 luglio Francesco arriva ad Auschwitz in anticipo rispetto all’orario previsto.

Da solo varca la porta della grande menzogna, la più grande della storia dell’umanità: “Il lavoro rende liberi”, si legge in tedesco nell’elegante ferro battuto del cancello oltre il quale hanno trovarono la più atroce delle morti più di un milione di prigionieri. Ebrei, rom e sinti, omosessuali, perseguitati politici e religiosi, moltissimi russi e polacchi, ma non solo.

Il Papa si siede su una panchina e per diversi minuti rimane in silenzio, prima di recarsi nel famigerato blocco 11, dove era situata la prigione del campo di detenzione.

Qui il Pontefice incontra undici superstiti, 101 anni la più anziana, 77 il più giovane. Quest’ultimo, ebreo, consegna al Vescovo di Roma una candela, con la quale Francesco accende a sua volta la lampada di bronzo che egli stesso ha portato in dono.

È poi la volta della sosta orante nella cella dove, esattamente 75 anni fa, fu rinchiuso San Massimiliano Maria Kolbe, il sacerdote francescano che si offrì per salvare la vita ad un padre di famiglia e che tra quelle quattro anguste mura avrebbe trovato la morte alla vigilia dell’Assunta, dopo più di due settimane di agonia.

Prima di lasciare Auschwitz alla volta del campo di Birkenau, Francesco si siede a scrivere alcune parole in spagnolo, le uniche che ha scelto di lasciare in questa sua visita, sul registro dei visitatori di questo luogo: “Signore, abbi pietà del tuo popolo! Signore perdono per tanta crudeltà!”.

Un’auto lo accompagna a Birkenau, dove ad attenderlo ci sono un migliaio di persone e tra di loro 25 Giusti tra le nazioni – persone che durante la persecuzione degli ebrei misero a repentaglio la propria vita per salvarne qualcuno – che il Papa saluta, uno ad uno.

Prima di incontrarli Francesco costeggia per diversi minuti il lungo binario che conduceva i prigionieri all’interno del campo. Poi cammina lentamente di fronte alle lapidi commemorative delle vittime, tavole di bronzo che declinano in tante lingue lo stesso grido di dolore.

Anche qui depone una lampada e poi ascolta, in ebraico, il canto del salmo 129, il De profundis.

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