Yitzhak Katzenelson

Yitzhak KatzenelsonKatzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia ma trascorse la maggior parte della sua vita a L¢dz, in Polonia. Insegnò per anni in un ginnasio, animato da una profonda vocazione pedagogica, trasmettendo a intere generazioni l’amore vivo per la lingua ebraica. Scrisse in ebraico e in yiddish: drammi, poemi, liriche. Lo scoppio della guerra impedì a Katzenelson di trasferirsi in Palestina e lo consegnò al tragico destino che travolse la quasi totalità dei rappresentanti della cultura e dell’arte ebraico-orientale. Per sottrarsi alle prime persecuzioni fuggì a Varsavia; qui nell’estate del 1942 assistette alla deportazione della moglie e di due figli e, via via, a tutti i tragici avvenimenti del ghetto fino alla rivolta della primavera del 1943. Sfuggito più volte miracolosamente alle deportazioni, Katzenelson riuscì, grazie a un passaporto falso, a essere trasferito nel campo di smistamento francese di Vittel, insieme con il primogenito Zvi. A Vittel scrisse il “Canto” e un diario del ghetto che nascosti in un contenitore di latta e sotterrati sopravvissero alla distruzione della guerra. La speranza di essere scambiati con prigionieri tedeschi tramontò nel maggio del 1944: Yitzhak e Zvi Katzenelson furono deportati ad Auschwitz e immediatamente trucidati. Il manoscritto del “Canto” fu ritrovato e pubblicato nel 1945 a Parigi.

Dos lid funm oysgehargetn yidishn folk” si articola in quindici canti che ripercorrono con straordinaria forza evocativa, le tappe dell’annientamento dell’ebraismo polacco, dall’invasione nazista al rogo del ghetto di Varsavia. I versi lunghi di Katzenelson portano nel turbine della storia, vento orribile che scompone, annienta, cancella, vanifica la memoria, e che tende a un paradossale punto statico: l’azzeramento, il vuoto, il nulla. Nessun autore probabilmente è riuscito come Katzenelson a rendere commensurabile l’incommensurabilità dell’Olocausto, a descrivere nella sua piena presenza la “folla immensa”, la “moltitudine infinita” del ghetto, il groviglio umano dei treni per Treblinka con i morti “che stanno in piedi, non potendo cadere in quella calca”; ma anche l’immane vuoto che a quei trasporti subentra nella Varsavia ebraica “scomparsa sotto i miei occhi… sciolta come fosse neve”, il silenzio delle case sventrate del ghetto, degli oggetti che giacciono monchi sui pavimenti.

Particolarmente struggenti i versi dedicati alle madri e ai bambini ebrei; quelli, tenerissimi, per la moglie scomparsa, o quelli ancora sul lutto dei mercati polacchi in cui “mai più un ebreo porterà la sua allegria, la sua vita, il suo spirito, / mai più le falde di un caffettano svolazzeranno intorno ai sacchi di patate, di farina, di grano, / una mano ebrea solleverà una gallina, accarezzerà un vitellino”.

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